COME SE NON SI VOLESSE SAPERE
Una giornalista che aveva letto con attenzione i miei libri ha deciso di fare un'inchiesta televisiva sulle cause e sulle conseguenze dei maltrattamenti inflitti ai bambini. Benché fosse molto apprezzata nella sua redazione e avesse già fatto svariate trasmissioni sui temi più diversi, questo suo progetto si è scontrato con una grande resistenza da parte di tutti gli altri interessati. Non ha tuttavia rinunciato al suo proposito e, dopo diversi mesi, ha ottenuto di poter realizzare quello che voleva: le è stato concesso di registrare colloqui con persone direttamente coinvolte nel problema (genitori e bambini), però le hanno messo a disposizione solo cinque minuti di filmato per ogni caso. Queste interviste della durata di cinque minuti sono state poi ripartite nell'arco di un programma articolato in quattro puntate di un'ora ciascuna, nel corso delle quali si dibattevano anche altri problemi che non avevano niente a che fare col tema del maltrattamento dei bambini. I filmati dell'inchiesta erano alternati a canzoni, a interviste con cantanti, all'illustrazione delle più recenti scoperte elettroniche e ad altre cose simili. Sullo schermo, durante le trasmissioni, appariva un numero di telefono che i telespettatori potevano chiamare se avevano da prospettare qualche problema legato al maltrattamento dei bambini. Uno psichiatra (nonché psicoanalista) presente in studio era a disposizione per rispondere alle domande. Moltissimi spettatori hanno approfittato dell'occasione, le telefonate si sono succedute con un'intensità mai riscontrata prima su altri argomenti. L'esperto in studio ha colto l'opportunità, fra una risposta e l'altra, per sostenere che non è il caso che i genitori che picchiano i figli si addossino sensi di colpa: ha suggerito loro di rivolgersi a un terapeuta per discutere di questo 'problema'. Non ha detto però che, nella maggior parte dei casi, questi colloqui sul 'problema' finiscono in un vicolo cieco. O forse non lo sapeva, o non lo sapeva ancora. Nella quarta e ultima puntata del programma la giornalista ha cercato di portare il discorso sulle conseguenze che il maltrattamento dei bambini comporta per il nostro avvenire. Ha chiesto: che individui diverranno mai i piccoli bambini cui oggi s'impedisce di piangere, imbottendoli di sonniferi e reprimendo così i loro sentimenti? Il moderatore, preoccupatissimo e con un sorriso stereotipato stampato sulle labbra, l'ha interrotta quasi a metà della frase per rassicurare i genitori, per dir loro che tutto quello che era stato mostrato e discusso non era poi così grave, e che — semmai — c'erano altri numeri telefonici cui potersi rivolgere. Ha accuratamente evitato di mostrarsi impressionato, aveva ormai delegato la sua responsabilità ai numeri telefonici e ha continuato a distrarre gli spettatori con altri numeri, i più adatti a far tacere i loro scrupoli e le loro perplessità.
Ma si voleva davvero sapere come si possono evitare i maltrattamenti oppure no? Perché si fa tanto col pretesto d'informare la gente, e poi ci si adopera, contemporaneamente, perché queste informazioni non arrivino, distogliendo l'attenzione e la sensibilità degli interessati con altri temi, facendo sì che risulti loro impossibile approfittare delle informazioni? La risposta è sempre la stessa: anche gli organizzatori di quella trasmissione hanno avuto un'infanzia e hanno dei genitori. Se fornissero informazioni esaurienti, tali da poter essere accolte, ne risulterebbe scossa anche la loro stessa rimozione. E questo suscita grandi paure. Si può dire agli organizzatori della trasmissione che hanno paura di questi temi? Lo contesterebbero in ogni caso, perché non sono consapevoli di questa paura. Se fossero capaci di avvertire questa sensazione, non si adopererebbero tanto per distogliere l'attenzione altrui. Il fatto è che le persone le cui sensibilità siano state mortificate e spente fin dall'infanzia non sono consapevoli della loro paura. Non sanno di darsi tanto da fare solo per sfuggire alla sensazione della paura. Quando però lavorano nei media, quello che fanno può avere conseguenze importanti, positive o negative: per loro stessi e soprattutto per gli altri. Da questa stessa paura, rimossa e quindi resa inconscia, deriva tutto l'indaffararsi di ginecologi e levatrici durante i parti. Il neonato è pesato, misurato, lavato come se la sua sopravvivenza dipendesse da tutte queste attività. E c'è anche chi lo afferma con convinzione. Ma che ciò non sia vero lo ha dimostrato circa quindici anni fa, con i suoi film e i suoi libri, il medico francese Frederick Leboyer. Il neonato che viene al mondo in modo naturale non strilla, ma giace soddisfatto, sorridente perfino, sul ventre della madre. Gli assistenti al parto evitano di manipolarlo come se fosse un pezzo di legno, non lo misurano, non lo bagnano e pesano esponendolo a luce eccessiva in mezzo a rumori fastidiosi, ma tengono conto dei suoi sentimenti, dello shock che ha subito, e lo trattano come una creatura umana particolarmente delicata.
Il valore scientifico di questi documenti filmati avrebbe dovuto modificare radicalmente la prassi che da noi vige in sala parto, e invece ne siamo ancora ben lontani. La tecnicizzazione in sala parto tende semmai ad aumentare in modo spaventoso. Le sofferenze psichiche del neonato e le conseguenze della loro rimozione restano celate agli addetti ai lavori, fatte poche eccezioni. Si nega valore scientifico alla scoperta di Leboyer, la si definisce addirittura pericolosa, e nella maggior parte delle cliniche si affrontano i normali parti come se si trattasse di sottoporre dei malati a degli interventi chirurgici. Si pratica sempre più spesso il parto pilotato, e la conseguenza è che una gran parte dei neonati deve subire immediatamente delle cure intensive, il che comporta ovviamente una separazione dalla madre. E in questo modo va perduta un'occasione decisiva per madre e figlio. Perché è proprio nei primi minuti e nelle prime ore dopo il parto che la presenza del figlio risveglia e attiva nella madre le sensazioni d'affetto e d'inclinazione che sono necessarie (bonding) per lo sviluppo del suo amore verso il bambino. Una partoriente che abbia sperimentato da bambina molto affetto, si ribellerà risolutamente a pratiche ospedaliere crudeli. Invece le donne che siano state a loro volta lasciate sole dopo la nascita, cui sia stata negata la possibilità di godere del calore, del contatto fisico immediato con la madre, s'adeguano ali' 'ordine' dell'ospedale senza protestare e lo considerano come un normalissimo corso delle cose. A volte poi però reagiscono alla separazione dal bambino appena nato con forme di depressione o altri malesseri fisici: ed è a questi malesseri che si volge a questo punto l'attenzione dei medici e del personale infermieristico. Mai, o solo raramente, c'è qualcuno che dica loro che i malesseri insorti sono un modo con cui esse stesse si difendono dai nuovi e vecchi dolori della separazione (cfr. A. Miller, // dramma del bambino dotato, pagg. 49-85). Assai più spesso è detto loro che le depressioni dopo il parto sono fenomeni 'del tutto normali' che si possono facilmente rimediare ricorrendo ai farmaci.
Molti medici definiscono erroneamente 'normale' ciò che accade spesso. È vero che le madri di oggi, messe al mondo negli anni Cinquanta e Sessanta in ospedali anonimi e sterilizzati, hanno raramente potuto fare delle esperienze positive in occasione della nascita. Ma questo comune destino non è affatto normale o inevitabile, poiché è frutto di condizionamenti culturali e non biologici. Le recenti, più umane innovazioni lo confermano inequivocabilmente. Una donna mi ha raccontato di aver accettato senza riserve la separazione dal suo primo bambino, subito dopo il parto, senza nemmeno rendersi conto di quanto questa separazione le fosse causa di disperazione. Aveva sofferto di depressioni e di infiammazioni al petto, che avevano a loro volta contribuito a tenerle lontano il bambino. Alla nascita del secondo figlio ha invece trovato presso il personale dell'ospedale maggiore simpatia e comprensione, e le hanno appoggiato sul ventre il neonato subito dopo il parto. La gioia intensa, conseguenza di questo contatto intimo e felice, è stata tale che ha potuto avvertire per la prima volta perfino il dolore che la solitudine le aveva causato quando lei stessa era venuta al mondo. E negli anni successivi ha constatato come il rapporto col secondo figlio sia stato assai meno 'gravoso' rispetto al primo, e di una stupefacente serenità.
Di analoghe esperienze e dei loro effetti sui rapporti successivi ho sentito dire anche da altre madri che hanno avuto la fortuna di poter scoprire, grazie alle felici circostanze d'un parto, le proprie antiche ferite e di guarirle. Nessuno riuscirà più a intimidirle con i miracoli della tecnica e della farmacopea. Anche esperimenti fatti su animali hanno dimostrato che le femmine cui si tolga il neonato subito dopo la nascita non dimostrano poi più alcun interesse né per la propria creatura, né per altri cuccioli. Non è un caso tuttavia che l'esperienza delle madri e le più recenti ricerche abbiano trovato scarsa attenzione presso la maggior parte dei medici. E questo perché la tecnicizzazione del parto serve a coloro che vi assistono come difesa dalle loro stesse paure: paure relative alle sofferenze a suo tempo rimosse in occasione della loro nascita e al possibile risorgere di quel ricordo. È una paura che blocca la possibilità di sfruttare nella prassi le nuove conoscenze e che sacrifica sconsideratamente la felicità di futuri esseri umani. Ma tutto questo, alle madri intimorite, è spacciato come progresso.
I ginecologi, che non sanno quasi nulla delle loro stesse paure, motivano il loro indaffarati dicendosi preoccupati del benessere del neonato. I conduttori televisivi lo motivano con esigenze di 'scaletta' e con l'asserita impazienza dello spettatore, di cui si afferma che vuole immagini e spettacolo e non è in grado di concentrarsi a lungo sul linguaggio parlato. Si continua a sostenerlo, anche se è chiaramente falso: specialmente di fronte a un tema come quello del maltrattamento dei bambini, che riguarda ciascuno di noi. E lo dimostrano le reazioni che sempre si registrano ogniqualvolta un mezzo di comunicazione si sofferma davvero su questo argomento.
Una giornalista norvegese mi ha intervistata per quasi due ore e mi ha consentito di sviluppare i miei pensieri senza interrompermi. Dopo la trasmissione molte persone le hanno telefonato ringraziandola sia per le informazioni, sia per il modo in cui era stata capace di ascoltare e di farmi parlare. Eppure le vecchie strutture mentali, apparentemente ancora valide e consolidate, continuano a garantire invece l'ossequio al comandamento 'Non devi accorgerti' e trovano conseguenti applicazioni: alla televisione come alla radio e sulla stampa.
Un mensile statunitense — di cui il mio editore americano mi assicura che è 'serio e rigorosamente scientifico' — mi fa sapere di voler pubblicare una mia intervista, affidata a una psicoterapeuta che si è a lungo occupata dei miei libri. Dopo aver ottenuto la garanzia che nulla potrà essere modificato senza il mio consenso, dichiaro la mia disponibilità. Però l'avventura vera e propria comincia solo dopo che la conversazione si è svolta. Per un anno intero la 'sezione artistica' del periodico scientifico sostiene che non è possibile pubblicare l'intervista se non consento a un fotografo della rivista di scattarmi delle foto. Continuo a respingere questa pretesa, perché non intendo affidare a nessuno il copyright di mie immagini, e propongo infine che si rinunci alla pubblicazione dell'intervista. Solo a questo punto la redazione mi fa sapere che è disposta ad accettare una fotografia fornita da me. Questo cedimento rispetto a presunti sacri principi è dovuto alla redattrice che ha elaborato con cura il testo dell'intervista, e per la quale è ora importante poterlo finalmente pubblicare. Si attiene all'impegno preso e mi consulta su ogni proposta di modifica.
Tre mesi dopo la pubblicazione, sul periodico scientifico statunitense, dell'intervista da me autorizzata, l'edizione tedesca d'una rivista il cui ambito d'interessi non ha assolutamente nulla da spartire con le mie idee, pubblica una versione ridotta a un terzo e grossolanamente alterata dell'originale intervista inglese. Inoltre, il giornale scrive che io avrei rilasciato alla loro rivista quelle dichiarazioni. Più tardi si scoprirà che dietro entrambi i periodici c'è la stessa casa editrice: circostanza che ha reso di fatto possibile questo 'transfert'. La supposizione secondo cui l'inganno ai danni del lettore è stato suggerito solo ed esclusivamente da considerazioni di carattere economico è abbastanza ovvia; tuttavia, l'esperienza che ho accumulato a proposito dell'argomento del maltrattamento dei bambini mi insegna che simili sorprendenti atteggiamenti ed equivoche iniziative dei media non hanno sempre una spiegazione così semplice. Avvengono anche quando non ci sono di mezzo evidenti vantaggi o danni di natura economica. A volte sorge l'impressione che il tema 'infanzia' basti di per sé per indurre automaticamente molte persone all’irrisione, all'arroganza, alla volgarità o addirittura a compiere azioni penalmente perseguibili: e sono esattamente gli stessi atteggiamenti e comportamenti che quelle persone hanno riscontrato e appreso dagli adulti nella loro infanzia. Che cos'è in sostanza accaduto nel caso che ho appena descritto? Una psicoterapeuta si sposta da New York in Europa per avere da me informazioni che le sembrano importanti e che l'impressionano visibilmente. Simile è la reazione della redattrice che più tardi elabora il testo. Non vedo dunque alcuna ragione per rifiutare alla rivista la pubblicazione, perché mi pare garantito il rispetto delle mie asserzioni; e per me è questo soltanto che conta: che i miei pensieri non siano distorti. Invece poi accade ugualmente proprio ciò che non desideravo: la rivista viene meno all'impegno scritto di non modificare, tagliare o aggiungere nulla senza il mio consenso. Consente che il mio testo sia arbitrariamente mutilato da persone non autorizzate, senza interpellarmi o anche solo informarmi. Consente che sia pubblicata una traduzione tedesca difettosa, senza chiedermi un'approvazione del testo. Consente anche che l'intera farsa appaia in una cornice assolutamente fuorviante. In questo modo il lavoro svolto con tanta cura e dispendio di tempo da tre persone, al fine di informare sul maltrattamento dei bambini e sulla relativa rimozione, è stato reso vano in un sol colpo. È stato come se una mano avesse portato qualcosa alla luce del sole, e l'altra si fosse affrettata a relegarlo di nuovo nell'oscurità. L'esempio che segue dimostra come questo fenomeno non si limiti a un episodio isolato. Poiché molti direttori di giornali sono stati in ampia misura allevati all'insegna dei principi della 'pedagogia nera' e ora li difendono, tendono a censurare le importanti informazioni che potrebbero risvegliare le loro paure. Impediscono anche a giornalisti e giornaliste più giovani di trasmettere nuove conoscenze che questi ultimi — forse grazie a un'educazione meno rigida impartita loro durante l'infanzia — sono già in grado di accogliere. E così i comandamenti della 'pedagogia nera' si riproducono nella nostra società inavvertitamente, e vengono sabotate informazioni che potrebbero salvare l'umanità dall'autodistruzione. Descriverò ora quello che mi è capitato nei rapporti che ho avuto con un'altra rivista, perché la storia evidenzia con quali resistenze ci si scontra quando si tenta di spiegare la condizione del bambino e di fare in modo che la sua voce venga ascoltata. Nell'estate del 1986 ho scritto una premessa alla nuova edizione britannica del mio libro // dramma del bambino dotato. La casa editrice ha offerto a un periodico tedesco la bozza di questo testo, che la redattrice incaricata di esaminarlo ha tuttavia trovato troppo teorico per i suoi lettori, e mi ha quindi chiesto, con gentilezza, di scrivere un articolo appositamente per la sua rivista. Voleva che mi rivolgessi direttamente ai lettori e che facessi capire ai genitori perché è così difficile per loro dominare l'ira nei confronti dei figli: occorre mostrar loro come possono uscire dal circolo vizioso, ha sostenuto la redattrice. E mi ha chiesto un articolo che evitasse le formulazioni teoriche e si accostasse il più possibile alla situazione concreta dei genitori.
Le argomentazioni sviluppate nella lettera che mi ha scritto mi hanno convinta e così ho scritto un articolo per quel periodico: lo stesso che appare ora in appendice a questo libro. Non che m'aspettassi che una qualsiasi rivista in Germania fosse davvero disposta a pubblicare quel testo, però non me la sono sentita di scriverlo diversamente. E poiché la redattrice, nel corso d'una conversazione telefonica, mi aveva detto che guardavo all'impresa con eccessivo pessimismo, e che il team con cui lavorava era assai aperto e disponibile ad accogliere nuove conoscenze, ho avuto motivo di sperare. La prima reazione al mio lavoro è parsa anche rafforzare questa speranza. La redattrice mi ha scritto: «Finora ho dato solo una scorsa al manoscritto, ma la prima impressione è buona: è proprio quello che m'immaginavo.» È stata una reazione che mi ha fatto molto piacere. Ero già propensa a pensare che le paure della mia generazione mi avessero resa cieca, impedendomi di vedere la crescente disponibilità dei giovani a sapere e a capire. Poi però ho dovuto constatare anche dell'altro. Dopo alcune settimane ho saputo che il vice redattore capo aveva trovato il mio testo interessante e che lo aveva portato a casa per leggerlo più attentamente: ma poi si era ammalato. Tornato guarito in redazione, sembra che avesse detto che l'articolo era importante, che non c'era nulla da eccepire sul suo contenuto, ma che era troppo lungo, tanto da dover essere ridotto di alcune pagine. E soprattutto voleva che fosse tagliato il passaggio riguardante Hitler, perché il lettore non avrebbe compreso il mio pensiero in quella forma sintetica.
Questo responso mi è apparso assai contraddittorio. Un periodico, il cui compito principale consiste nell'informare i genitori su cosa significa essere genitori, dispone di un articolo che i redattori giudicano importante e giusto, un articolo che ha l'esatta lunghezza che mi era stata indicata: eppure poi i responsabili sostengono che è assolutamente necessario tagliarlo. E d'altra parte affermano anche che la menzione di Hitler, appunto quella che potrebbe aiutare molti a comprendere il resto, deve essere tagliata perché è troppo generica e bisognosa di spiegazione. E allora come mai non mi si è chiesto di fornire questa spiegazione?
Ho domandato alla redattrice con cui ero in contatto se la definizione di 'troppo lungo' non volesse in realtà significare: questa è una verità intollerabile, non possiamo offrirla così semplicemente, in modo così schietto e diretto. Ha assicurato che mi sbagliavo e mi ha promesso di sottopormi sollecitamente una versione accorciata.
Ha mantenuto la parola. Il risultato mi è parso coraggioso, sincero, senza abbellimenti, senza distorsioni. La redattrice, una giovane donna, anche lei madre di due bambini, sembrava aver sopportato bene la verità. Mi comunicava, nella lettera di accompagnamento, che per alcuni il mio articolo poteva rappresentare uno shock, ma che si sarebbe trattato comunque di uno shock salutare, e che la questione era troppo importante perché non lo si pubblicasse. Non viviamo più ai tempi di Sigmund Freud, ho pensato: qualcosa sta davvero cambiando.
Però m'ero rallegrata troppo presto. Due settimane dopo che avevo telefonato alla redattrice, per congratularmi per il suo coraggio e per la brillante sintesi che aveva fatto dei miei concetti, mi è giunta un'altra sua lettera: mi si comunicava che il capo redattore in persona aveva nel frattempo letto l'articolo, giudicandolo incomprensibile per i lettori. E così la pubblicazione dell'articolo è stata definitivamente bloccata. Tutto quello che sono stati capaci di fare è stato di offrirmi la possibilità di dare, alcuni mesi dopo, un'intervista al loro periodico. Intendevano pubblicare un numero intero dedicato al tema del maltrattamento dei bambini, e la mia opinione sull'argomento delle 'punizioni' poteva essere offerta come base di discussione assieme ai pareri di altre persone.
Mi è molto dispiaciuto che i miei sforzi d'informare i genitori sulla loro condizione, e di evitar loro, in questo modo, d'addossarsi ulteriori sensi di colpa, non siano stati sostenuti proprio da una rivista che si dice interessata ad aiutare i genitori. Quando, cinque anni fa, sono insorte difficoltà analoghe col settimanale femminile «Brigitte», sono però riuscita a fare, finalmente, anche un'esperienza positiva. Va dato atto al coraggio della redazione di allora se il grave problema costituito, anche in Germania, dalle persone traumatizzate da incesto è infine approdato all'attenzione del pubblico.
La descrizione dell'esperienza che ho fatto con quel periodi-co non è più, oggi, molto significativa. Ho notato che, al giorno d'oggi, le giornaliste che mi intervistano dimostrano molta più comprensione per la condizione del bambino di quanto accadeva ancora sette anni fa. Capita tuttavia anche adesso che interviste in cui il mio pensiero sia stato perfettamente interpretato non possano poi ugualmente essere pubblicate perché ritenute 'troppo lunghe' o 'troppo corte' o per qualche altra strana ragione che non avrebbe comunque nulla a che fare — me lo si sottolinea espressamente — col contenuto. Ho l'impressione che gli stessi giornalisti interessati ne sembrino convinti, o forse ritengano di doverlo credere: e non solo perché il loro posto dipende dal beneplacito dei superiori, ma anche perché molti di questi superiori parlano il linguaggio dei genitori di quei giornalisti. Un linguaggio che rende più impotente di quanto uno in realtà non sia, e questo perché riapre antiche ferite e fa in tal modo riemergere l'antica sensazione del bambino di essere inerme e indifeso. La paura della verità si può rilevare anche con l'esempio dell'attività giudiziaria, che pure ha il compito esplicito di trovare la verità. Il processo di cui si è detto nel capitolo precedente, a carico di insegnanti d'una scuola di Los Angeles, ha prodotto in breve tempo la prova che 300 bambini erano stati brutalmente ricattati per alcuni anni dai loro insegnanti. Con pesanti minacce gli scolari erano stati costretti a mantenere segreti gli abusi sessuali compiuti su di loro. In un primo momento è parso che tutta la stampa americana e la vasta opinione pubblica si schierassero apertamente dalla parte dei bambini, e i delitti portati alla luce dal processo hanno in effetti suscitato una diffusa indignazione. Poi però, già due anni dopo, la situazione era radicalmente cambiata. Nel 1987 una lettrice abitante in quello stesso stato mi ha riferito quanto segue:
La maggior parte degli imputati sono stati dimessi dal carcere in libertà provvisoria, hanno presentato delle controdenunce e chiesto milioni di dollari di risarcimento dei danni, asserendo che la loro attività professionale era stata compromessa dalle accuse (e non dai delitti commessi). La madre che per prima aveva denunciato gli insegnanti si è nel frattempo suicidata. Molti genitori hanno ritirato le loro denunce perché si sono resi conto che gli interrogatori dei figli si sarebbero protratti per degli anni e che i bambini avrebbero dovuto ripetere tutto pubblicamente, durante il processo, benché le loro dichiarazioni fossero già state tutte filmate durante l'istruttoria. Ma i terapeuti sono ora accusati — dagli avvocati e da una parte della stampa — d'aver inventato quelle storie e di averle suggerite ai bambini.
Non c'è nulla che sia più facile da zittire della sincera voce di un bambino, e particolarmente in un'aula giudiziaria. La maggior parte dei giudici pare non saperlo, e consente che le vittime siano interrogate come se fossero dei testimoni adulti. Un terapeuta che aveva in cura una delle vittime, una bambina di 6 anni, mi ha scritto quello che si può verificare nel corso di simili interrogatori. La piccola paziente era già stata colta dal panico durante l'istruttoria, e quando l'hanno fatta sedere sull'alto scranne dei testimoni, dove non riusciva a star seduta in modo da poter poggiare i piedi per terra, il suo disagio s'è accentuato al punto che era disposta a rimangiarsi tutte le affermazioni fatte fino a quel momento pur di ritrovarsi con la terra sotto i piedi e di poter scappare.
A prima vista può sembrare stupefacente che dei giudici — siano essi uomini o donne — possano avere una così scarsa conoscenza dell'animo del bambino. Paiono essere ciechi di fronte a una circostanza assolutamente decisiva, e cioè di fronte al dato di fatto che i difensori degli imputati — avvocati ben pagati e maestri nell'uso della parola — tendono a eliminare dall'aula giudiziaria la voce della verità attraverso l'intimidazione e il lavaggio del cervello: e questo prima ancora che si arrivi alla sentenza, tanto che la verità risulta alla fine introvabile. Avvolti solennemente nelle loro toghe, suscitano l'impressione che per loro contino la verità e la giustizia: ma entrambe non si possono cercare a occhi chiusi. Sarebbe stato dovere dei giudici quello di trovare una via d'uscita dal mostruoso labirinto costituito da quel processo. E invece si sono trasformati in compiici dei responsabili, esattamente come avevano imparato a fare da bambini. Si sono asserviti agli interessi degli adulti, degli avvocati senza scrupoli e dei delinquenti, e hanno tradito il bambino e quindi anche la verità. Chissà cosa sarebbe riaffiorato nella loro memoria se avessero ascoltato quei bambini con orecchie aperte e guardandoli bene in faccia, con occhi attenti! E invece hanno preferito proteggersi contro quest'eventualità ricorrendo alla routine, abbandonando i bambini già gravemente colpiti a nuove, crudeli forme di maltrattamento e sacrificandoli all'ignoranza degli adulti. E lo hanno fatto senza battere ciglio e senza provare rimorsi di coscienza, poiché essi stessi erano stati un tempo sacrificati alla stessa ignoranza e non sono stati ancora messi nella condizione di poterlo scoprire.